domenica 20 giugno 2010
How NIF Works
Il LIFE project del National Ignition Facility al Lawrence Livermore National Laboratory ha qualcosa di straordinario e folle al tempo stesso: un mini Soleda laboratorio che promette di produrre più energia di quella che necessita per la sua stessa sussistenza.
Concentrando 192 potenti raggi laser su una sfera di 2 millimetri di gas di idrogeno a bassissima temperatura si vuole tentare la realizzazione di energia potenzialmente senza fine. Funzionerà? O sarà solo fantascienza? Sopra possiamo ammirare un video a proposito del progetto.
Sì, si parla di fusione e si utilizzano termini dalla grande responsabilità. Il combustibile di fissione può alimentare il sistema, visto che le reazioni di fissione possono essere raccolti per la produzione di ulteriore energia elettrica. E’ possibile anche sfruttare l’uranio impoverito o il combustibile esaurito da centrali nucleari esistenti.
Il sistema LIFE brucerà così i sottoprodotti del ciclo del combustibile nucleare in corso dato che i neutroni di fusione “nascono” indipendentemente dal processo di fissione, non è necessario il ritrattamento. Insomma il delitto potenzialmente perfetto. Il sistema può così funzionare 24/7 in sicurezza. Almeno questo è il proposito.
(Tecnocino)
mercoledì 16 giugno 2010
Introducing Antarctica.
No place on earth compares to this vast white wilderness distilled to an elemental haiku: snow, ice, water, rock. Antarctica is simply stunning. The enormity of its ice shelves and mountain ranges invariably heightens feelings of humanity’s insignificance and nature’s grandeur. Antarctica’s peculiar beauty may haunt you for the rest of your days. Even the trip over, crossing the Southern Ocean is an experience – with no landmass, low-pressure systems circle clockwise unimpeded, eventually reaching incredible speeds. The Falkland Islands in the South Atlantic are often included in a trip to Antarctica
Because the continent has never had a native population – even today, scientists and other staff members at research stations are only temporary residents – Antarctic wildlife is still unafraid of people. Well-behaved visitors usually elicit no more than disinterested yawns from seals and penguins focused on rearing their young and evading predators. The human reaction is exactly opposite: almost all visitors to Antarctica find that their experiences here exceed their expectations.
Everyone – scientist, support worker, government official and tourist alike – who comes to this, the most isolated continent, must ‘earn’ Antarctica, either by making an often-difficult voyage or a costly flight. Ice and weather, not clocks or calendars, determine the itinerary and the timetable of all travel here.
An international treaty signed by 46 countries, representing the large majority of the world’s population, governs Antarctica. The continent, the treaty parties concur, is too large and important to belong to just one country. They further agree that Antarctica, unique among the world’s landmasses, should remain a peaceful, free and demilitarized place of international cooperation and scientific research, open to all, with a minimum of human development.
Antarctica’s most pressing issue is its environment and how best to protect it. The major impacts on the Antarctic environment are caused by people who have never even visited it. Climate change and ozone depletion are prime examples of the way human activity elsewhere affects Antarctica. But studies have also found that lead particles from gasoline combustion are blown to Antarctica as soon as one month after they leave exhaust pipes inSouth America, Australia and New Zealand, and pesticide residue has been found both in seabird guano and in penguin tissues. Plastic and other rubbish washes up on Antarctica’s beaches in ever-increasing amounts.
Human activity in the Antarctic is also having negative impacts. Longline fishing for Patagonian toothfish has been a twofold environmental disaster. Toothfish are caught in enormous and unsustainable numbers, with much of the catch illegal, and albatrosses in their thousands are also caught on the steel hooks, dragged down hundreds of meters and drowned – an ignoble end for such magnificent fliers.
Despite continuing concerns that oil drillers or miners will ruin Antarctica’s snowscape, the continent’s largest industry by far is tourism. While governments fret over how best to regulate tourism to minimize its impact, they’re hindered by the fact that since no one owns Antarctica, no single country can legislate behavior here. Meanwhile, tour companies police themselves, although no industry has ever been completely successful at that task, fraught as it is with conflicts of interest. For Antarctica’s sake, may the parties involved use their best judgment for the sake of safeguarding the Antarctic environment, and not just their own individual financial concerns.
martedì 15 giugno 2010
Scoperta una nuova funzione degli anticorpi.
Gli anticorpi non servono solo a identificare e distruggere le sostanze e i microrganismi che aggrediscono l'organismo, ma partecipano anche all'opera di "ricostruzione" di tessuti danneggiati. Questa funzione del tutto inaspettata è stata riscontrata da un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine che la descrivono in un articolo pubblicato suiProceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).
La ricerca era partita dall'osservazione che mentre le cellule del sistema nervoso centrale non riescono a rigenerarsi dopo una lesione, quelle del sistema nervoso periferico lo fanno in modo consistente. Una delle più evidenti differenze fra i due casi è rappresentato dal fatto che mentre il sistema periferico può essere raggiunto dagli anticorpi presenti nel flusso sanguigno, sia al cervello sia al midollo spinale sono isolati rispettivamente dalla barriera emato-encefalica e dalla barriera emato-liquorale.
Le cellule che trasmettono impulsi su lunghe distanze hanno gli assoni protetti da un sottile strato isolante di una sostanza lipidica, la mielina: "Dopo una lesione a un nervo, la massa di mielina che degenera viene rapidamente ripulita nel sistema periferico, ma non in quello centrale. Di fatto, in un cervello o in un midollo lesionato la mielina degenerata continua a restare in situ per il resto della vita della persona. Dopo una lesione, per esempio, al nervo sciatico, la mielina degenerata viene rimossa in una settimana o anche meno", spiega Mauricio Vargas, primo firmatario dell'articolo sui PNAS.
I ricercatori, dopo aver prodotto un topo mutante che non era in grado di produrre anticorpi, hanno mostrato che in quel topo la riparazione di una lesione al nervo sciatico risultava sostanzialmente bloccata, così come la rimozione della mielina degenere. Se però successivamente venivano iniettati anticorpi ottenuti da topi normali, il processo di rimozione riprendeva e così pure la capacità di auto-rigenerazione del nervo.
"Che gli anticorpi partecipassero alla rimozione dei globuli rossi senescenti era noto, ma questa è la prima volta che essi appaiono implicati in un processo di riparazione", ha detto Vargas. "Abbiamo in particolare mostrato che gli anticorpi aderiscono alla mielina degenerata e la segnalano ai macrofagi che provvedono a fagocitarla."
Peraltro, i ricercatori hanno osservato che il risultato non dipendeva dal fatto che gli anticorpi provenissero da un topo che aveva in precedenza subito anch'esso una lesione a un nervo o no, suggerendo che si tratti di anticorpi "fuori ordinanza", già presenti nell'organismo e non prodotti solamente in seguito alla lesione. Un fatto confermato da un ulteriore esperimento in cui si è mostrato che il processo di ripulitura non viene innescato da qualsiasi tipo di anticorpi, ma da un tipo specifico di essi.
Questi anticorpi non danneggiano la mielina integra, ha spiegato Ben Barres, che ha diretto lo studio, perché quella danneggiata presenta caratteristiche strutturali superficiali differenti da quella integra.
Anche se lo studio è stato condotto sul sistema nervoso periferico, i suoi risultati aprono le porte alla possibilità di sondare nuovi approcci terapeutici anche per danni che coinvolgano il cervello o il midollo spinale attraverso infusione diretta di questi anticorpi, in modo che segnalino alla microglia - il corrispondente dei macrofagi nel sistema nervoso centrale - la necessità di eliminare la mielina degenerata.
(LeScienze)
La ricerca era partita dall'osservazione che mentre le cellule del sistema nervoso centrale non riescono a rigenerarsi dopo una lesione, quelle del sistema nervoso periferico lo fanno in modo consistente. Una delle più evidenti differenze fra i due casi è rappresentato dal fatto che mentre il sistema periferico può essere raggiunto dagli anticorpi presenti nel flusso sanguigno, sia al cervello sia al midollo spinale sono isolati rispettivamente dalla barriera emato-encefalica e dalla barriera emato-liquorale.
Le cellule che trasmettono impulsi su lunghe distanze hanno gli assoni protetti da un sottile strato isolante di una sostanza lipidica, la mielina: "Dopo una lesione a un nervo, la massa di mielina che degenera viene rapidamente ripulita nel sistema periferico, ma non in quello centrale. Di fatto, in un cervello o in un midollo lesionato la mielina degenerata continua a restare in situ per il resto della vita della persona. Dopo una lesione, per esempio, al nervo sciatico, la mielina degenerata viene rimossa in una settimana o anche meno", spiega Mauricio Vargas, primo firmatario dell'articolo sui PNAS.
I ricercatori, dopo aver prodotto un topo mutante che non era in grado di produrre anticorpi, hanno mostrato che in quel topo la riparazione di una lesione al nervo sciatico risultava sostanzialmente bloccata, così come la rimozione della mielina degenere. Se però successivamente venivano iniettati anticorpi ottenuti da topi normali, il processo di rimozione riprendeva e così pure la capacità di auto-rigenerazione del nervo.
"Che gli anticorpi partecipassero alla rimozione dei globuli rossi senescenti era noto, ma questa è la prima volta che essi appaiono implicati in un processo di riparazione", ha detto Vargas. "Abbiamo in particolare mostrato che gli anticorpi aderiscono alla mielina degenerata e la segnalano ai macrofagi che provvedono a fagocitarla."
Peraltro, i ricercatori hanno osservato che il risultato non dipendeva dal fatto che gli anticorpi provenissero da un topo che aveva in precedenza subito anch'esso una lesione a un nervo o no, suggerendo che si tratti di anticorpi "fuori ordinanza", già presenti nell'organismo e non prodotti solamente in seguito alla lesione. Un fatto confermato da un ulteriore esperimento in cui si è mostrato che il processo di ripulitura non viene innescato da qualsiasi tipo di anticorpi, ma da un tipo specifico di essi.
Questi anticorpi non danneggiano la mielina integra, ha spiegato Ben Barres, che ha diretto lo studio, perché quella danneggiata presenta caratteristiche strutturali superficiali differenti da quella integra.
Anche se lo studio è stato condotto sul sistema nervoso periferico, i suoi risultati aprono le porte alla possibilità di sondare nuovi approcci terapeutici anche per danni che coinvolgano il cervello o il midollo spinale attraverso infusione diretta di questi anticorpi, in modo che segnalino alla microglia - il corrispondente dei macrofagi nel sistema nervoso centrale - la necessità di eliminare la mielina degenerata.
(LeScienze)
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lunedì 14 giugno 2010
sabato 12 giugno 2010
Richard Dawkings: L'illusione di Dio.
Il testo “ateo” per eccellenza, la punta di diamante del cosiddetto New Atheism, il più venduto libro “religioso” nel mondo anglosassone nel Natale 2006 esce in Italia con ben dieci mesi di ritardo rispetto alla sua pubblicazione negli USA e nel Regno Unito: se volevamo una conferma del quarto mondo culturale in cui è ormai precipitato il nostro Paese, direi che questa è proprio eclatante. Eppure da quasi un anno tutto il mondo occidentale ne discute appassionatamente, perché L’illusione di Dioè uno di quegli eventi che, lo si apprezzi o no, caratterizzano un’epoca. La sua importanza è tale che, da parte cristiana, sono già stati pubblicati almeno dieci tentativi di confutazione, con un successo notevolmente minore. Non è infatti facile rispondere adeguatamente alla Summa Atheologica di uno dei massimi scienziati viventi. Potrebbe forse tentarvi qualche noto scienziato, ma è dura trovarne di credenti, come le statistiche citate nel libro ampiamente dimostrano.
Almeno un vantaggio (uno) la pubblicazione tardiva l’ha avuto. Il testo appena giunto nelle librerie contiene infatti la prefazione alla seconda edizione, in cui Dawkins risponde alle sette critiche più frequenti da lui ricevute, nessuna delle quali – va subito rilevato – vanno al nocciolo del problema, anche perché sono soprattutto critiche interne al mondo della miscredenza: quasi a dimostrare come la religione, perlomeno nel mondo occidentale, stia venendo progressivamente derubricata da soggetto a oggetto del dibattito culturale. Il rischio, che sul lungo periodo potrebbe rivelarsi concreto, è che a certi livelli sia percepita sempre più come qualcosa di analogo all’astrologia: il cui seguito sarà magari amplissimo, ma i cui esponenti non sono certo invitati alle conferenze accademiche, semmai a Domenica in. È una strategia che la vacuità della Chiesa ruinian-ratzingeriana sembra addirittura perseguire scientemente: il ventennale progetto culturale della CEI ha prodotto molte rivendicazioni economiche e giuridiche, ma nessun testo che abbia inciso nel mondo intellettuale o che abbia sfondato a livello di vendite. Difficilmente potrà essere un caso.
Ma veniamo al libro. I punti fondamentali sono costituiti dai quattro appelli di cui Dawkins parla nella prefazione: la funzione della selezione naturale, la repulsione per i principî religiosi inculcati nell’infanzia, la positività di una visione atea della vita e l’orgoglio che ne consegue conducendo «una vita piena, serena e liberata», una vita che può rendere gli atei «felici, equilibrati, morali e intellettualmente appagati». Non che gli atei abbiano mai pensato il contrario: sono i credenti a farlo. Ebbene, ed è la prima volta che lo scrivente lo trova messo nero su bianco da un autore non religioso, Dawkins afferma esplicitamente che il suo saggio«intende convertire». Da quanto afferma nella prefazione sembrerebbe che qualche risultato l’abbia ottenuto, ma il vero, enorme risultato già conseguito è la vendita di un numero impressionante di copie di un libro che tratta anche di argomenti non sempre semplici (il multiverso, il principio antropico, i memeplessi…). Può esserci riuscito, come sostiene qualcuno, perché ha fatto “moda” (ma se l’ateismo fa moda, please, avvisate subito i mass media italiani): chi scrive è convinto che ci sia riuscito perché possiede una rarissima capacità affabulatoria, che rende piacevole la lettura anche ai non-tecnici. Certo, è improbabile che possa risultare accessibile anche ai devoti di Ganesh o di san Pio da Petrelcina, ma non sono certo questi i destinatari del libro.
Si parlava prima di Summa: non vi sono infatti clamorose novità nel testo. Gran parte delle pagine sono dedicate a temi noti: le ragioni pro e contro l’esistenza di Dio, l’origine della religione, la sua funzione di soddisfare un bisogno di consolazione, l’etica laica, l’incongruità dei testi sacri, l’indottrinamento dei bambini, il fondamentalismo religioso (e la difesa dall’accusa che ne esista uno anche ateo). Il libro è dunque soprattutto un sontuosissimo punto della situazione che parte dallo stato dell’arte della ricerca scientifica: la quale, proprio per avere nell’eredità darwiniana un suo fondamentale punto fermo, suscita le reazioni, scomposte e non, di gran parte dell’establishment religioso del pianeta. Anche Dawkins deve “perdere del tempo” a riepilogare acquisizioni pressoché assodate, ed è costretto a farlo a causa di forsennate campagne denigratorie consentite dagli ingenti finanziamenti di cui godono i creazionisti: di qui le sue continue frecciate che lancia alla John Templeton Foundation, accusata di alterare l’atteggiamento pubblico di molti scienziati nei confronti della fede.
L’argomento contro l’esistenza di Dio a cui l’autore dedica più spazio è quello che lui chiama del «Super-Boing»: «un Dio capace di monitorare e controllare in permanenza le condizioni di ogni singola particella dell’universo», di curare simultaneamente «azioni, emozioni e preghiere di ogni singolo essere umano», di «decidere ogni momento di non salvarci miracolosamente quando ci ammaliamo di cancro» non può essere «semplice», come sostengono tanti teologi, ma necessita di una spiegazione«mastodontica» statisticamente improbabile quanto il supposto Creatore. Per questo, scrive Dawkins, si può sostenere che è «quasi certo» che Dio non esiste.
Esiste però la religione. Capire perché è nata non è facile: la tesi su cui maggiormente si sofferma l’autore è che la religione sia un prodotto indiretto della tendenza umana all’obbedienza. «Per effetto negativo della selezione naturale, il cervello dei bambini tende a credere a qualunque cosa dicano i genitori e gli anziani della tribù»: se ciò garantisce loro la sopravvivenza, consente però anche la sopravvivenza e la trasmissione di idee contagiose quali quelle religiose. La tesi è convincente, e trova conferme empiriche anche in altre discipline (ricordate l’esperimento di Milgram?). Perchè poi una religione si imponga, scrive Dawkins, è materia di studio da lasciare agli storici: possiamo però osservare, anche oggi e in vivo, la nascita di alcune religioni, come i cargo cults melanesiani. Oppure guardarci Brian di Nazareth, dove il fenomeno è raccontato in maniera divertente, ma tremendamente efficace.
Come l’obbedienza (e il desiderio sessuale), anche l’altruismo potrebbe essere un «prezioso» errore darwiniano: in ogni caso, è assolutamente inutile cercare di individuare un appiglio grazie al quale i credenti sarebbero moralmente migliori dei non credenti. Soprattutto oggi, quando ai nostri occhi certi comportamenti del passato (magari narrati nei libri sacri) appaiono repellenti: loZeitgeist, sostiene Dawkins, muta sempre più velocemente, e non muta grazie ai teisti. Tuttavia, se certi diritti, come l’eutanasia, faticano a farsi strada, è proprio a causa delle resistenze opposte dai leader religiosi. Eppure sono proprio gli atei, convinti di avere una vita sola, a considerarla preziosa, e a reagire meglio all’approssimarsi della sua fine. La religione potrà anche rappresentare una consolazione, scrive Dawkins, ma questo purtroppo non impedisce a un caro estinto di continuare a essere morto.
L’illusione di Dio conferma dunque il felice momento dell’ateismo: mai così tanti libri, e scritti così bene. Conferma anche l’effetto stimolante suscitato da un libro come Rompere l’incantesimo di Daniel C. Dennett, in particolare nella necessità di sottoporre le religioni a uno studio scientifico e nell’urgenza di combattere la (purtroppo assai diffusa) «credenza nella credenza», che dai tempi di Crizia imperversa senza posa. Per questo, sostiene Dawkins, è necessario che i non credenti si organizzino: negli USA, benché siano numericamente ben più consistenti degli ebrei, «gli atei e gli agnostici non sono organizzati e quindi non fanno sentire la loro voce» (in Italia sì, ma è difficile lo stesso). Forse perché organizzarli è «come tentare di unire i gatti in un branco»? Ma anche i gatti,«se in numero sufficiente, fanno abbastanza rumore da essere notati». Ecco perché in fondo al libro è stato pubblicato un elenco di«indirizzi utili per liberarsi dalla religione», purtroppo limitato al solo mondo anglofono (ma l’UAAR è citata sul più pingue elenco pubblicato sul sito di Dawkins. Troppo anglofone sono anche la bibliografia e le fonti citate, quando il fenomeno editoriale ha raggiunto ormai anche l’Italia (Odifreddi), la Spagna (Savater) e la Francia (Onfray). Qualche incertezza sulla storia della dottrina del peccato originale non sminuisce il valore di un’opera molto importante che non indulge affatto a riflessioni teologiche: fondamentale in ogni biblioteca miscredente che si rispetti, anche se gli agnostici potranno risentirsi per le critiche riservate anche a loro.
Come già accennato, gli studi di una pluralità di discipline stanno concentrando la propria attenzione sul fenomeno religioso, e la progressiva convergenza dei loro risultati sta creando, anche se per ora solo accademicamente, seri danni alla plausibilità della fede. Difficile fare previsioni, ma se il processo proseguirà, forse tra qualche decennio conosceremo una svolta davvero epocale.
Raffaele Carcano
settembre 2007
settembre 2007
(UAAR)
Another Earthquake in Indonesia.
Earthquake Details
Magnitude | 5.0 |
---|---|
Date-Time |
|
Location | 5.729°S, 102.595°E |
Depth | 35 km (21.7 miles) set by location program |
Region | SOUTHERN SUMATRA, INDONESIA |
Distances | 215 km (135 miles) S of Bengkulu, Sumatra, Indonesia 270 km (170 miles) S of Lubuklinggau, Sumatra, Indonesia 295 km (185 miles) W of T.-Telukbetung, Sumatra, Indonesia 470 km (290 miles) W of JAKARTA, Java, Indonesia |
Location Uncertainty | horizontal +/- 9.6 km (6.0 miles); depth fixed by location program |
Parameters | NST= 37, Nph= 37, Dmin=157 km, Rmss=1.17 sec, Gp= 86°, M-type=body wave magnitude (Mb), Version=6 |
Source |
|
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Japanese Guts Are Made for Sushi.
Americans don't have the guts for sushi. At least that's the implication of a new study, which finds that Japanese people harbor enzymes in their intestinal bacteria that help them digest seaweed--enzymes that North Americans lack. What's more, Japanese may have first acquired these enzymes by eating bacteria that thrive on seaweed in the open ocean.
Mirjam Czjzek didn't set out to compare cross-cultural eating habits. Instead, the chemist at the Station Biologique de Roscoff, on the coast of Brittany in France, was interested in what it takes to digest a piece of seaweed. Unlike in land plants, the carbohydrates that make up seaweed are spangled with molecules of sulfur, so special enzymes are needed to break them down.
To figure out exactly which enzymes are necessary, Czjzek and colleagues embarked on what she calls "treasure-hunting in the marine bacterial genome." The researchers focused on Zobellia galactanivorans, a marine bacterium known to munch on seaweed. The hunt turned up five genes in Z. galactanivorans that seemed to code for enzymes that could break down the particular carbohydrates found in the marine algae. When the researchers transferred these genes to another bacterium forced to eat seaweed carbohydrates, they found that two genes were particularly active.
Czjzek wondered where else these genes might be lurking. So she used a computational method known as BLAST to scan vast banks of metagenomic data—the genomes of bacteria gathered from the environment—for sequences that matched up with the two Z. galactanivorans genes. That's when the surprise came.
"They were all, except one, from marine bacteria," Czjzek says. "The one exception ... came from human gut samples." The bacterium in question is known as Bacteroides plebeius, and it has been found only in Japanese people. Wondering whether the enzymes were unique to Japanese individuals, Czjzek's team compared the microbial genomes of 13 Japanese people with those of 18 North Americans. Five of the Japanese subjects harbored the enzyme, but among the North Americans, "we didn't find a single one," says Czjzek, whose team reports its findings tomorrow in Nature.
Where would bacteria inside the human gut get ahold of a seaweed-digesting enzyme? Czjzek speculates that they could have grabbed it from bacteria that live on the seaweed. She notes, for example, that according to tax records dating back to the 8th century C.E., seaweed was used as a form of payment in Japanese society. "That shows the importance of this type of good," Czjzek says. With nori, the seaweed used to wrap sushi orwakame, a green seaweed often served in miso soup, being consumed day after day, the bacteria in the gut would have a chance to incorporate genetic material from their marine-dwelling cousins. "Traditionally, [the Japanese] eat [seaweed] raw, not sterile," says Czjzek. "This makes the contact possible."
The ability to munch on a few extra carbohydrates might have given these gut bacteria a leg up over their thousands of competitors, says Czjzek. It also may help their human hosts. Because gut bacteria can squeeze energy from carbohydrates that human enzymes can't break down, these adapted microbes might help Japanese who dine on seaweed get more nutrition from their meal than do North Americans, she says.
Scientists have thought that gut bacteria might pick up genes from other microbes, a process known as lateral gene transfer, "but there hasn't been an example this clear before," says Ruth Ley, a microbiologist at Cornell University. "I think it's the first demonstration of how people's culture has impacted the [bacteria in the] gut."
(Science)
Jabulani e l'evoluzione del calcio: non date retta ai calciatori.
Il primo accorgimento da adottare se si vuole, per quanto è possibile, spiegare scientificamente l'evoluzione del gioco del calcio è non dare troppo retta ai giocatori. Non ci sono sportivi al mondo più conservatori dei calciatori. E forse non ci sono appassionati di sport più conservatori dei tifosi di calcio.
Le regole sono immutabili, al contrario di quanto accade in altre discipline. Pensate alle rivoluzioni provocate dal tie-break nel tennis, piuttosto che dal tiro da 3 punti nel basket o dalle moviole in campo introdotte negli sport professionistici Usa e nel rugby. Ma non è solo una questione di regole, spesso disturba anche la semplice evoluzione tecnologica degli strumenti di lavoro.
Scarpe a parte (perché gli sponsor pagano subito), i calciatori si lamentano di qualsiasi novità. Ultimo il pallone dei Mondiali, l'ormai famoso Jabulani (vuol dire festeggiare, nella lingua degli indigeni Zulu). Tutti i portieri hanno protestato: "Fa schifo", il giudizio più benevolo dei vari Julio Cesar, Buffon e Casillas.
"E' come un pallone da spiaggia, ingestibile, le traiettorie sono incontrollabili, è troppo leggero". Troppo leggero? Come, troppo leggero? Il peso del pallone è stabilito dal regolamento, può andare dai 420 ai 450 grammi, non si sgarra. EJabulani pesa 445 grammi, quasi il massimo consentito.
La verità è che l'evoluzione del pallone ha una storia che naturalmente s'intreccia con gli sviluppi di matematica, fisica e ingegneria. Per grandi linee, Nicola Ludwig, ricercatore di fisica dell'Università di Milano, la riassume così: agli inizi era fatto di fasce di cuoio cucite fra di loro; poi, più o meno dal 1970, si cucirono insieme 12 pentagoni neri e 20 esagoni bianchi. In entrambe queste fasi storiche si trattava di realizzare una struttura sferica partendo da oggetti piani da cucire fra di loro: ovvio che la sfera non potesse essere perfetta.
Negli ultimi anni sono stati realizzati passi da gigante: si sono cominciate a utilizzare superfici curve termosaldate, quindi senza cuciture. Questo ha reso i palloni più rapidi, ma paradossalmente troppo sfericamente perfetti e quindi più esposti alle forze devianti. E' quello che accadeva con Teamgeist, usato ai Mondiali di Germania: traiettorie zigzaganti ma perdita di velocità in moto.
Jabulani, con l'aggiunta di minuscole asperità artificiali, tenta di ovviare a questo inconveniente, rendendo le traiettorie più veloci, ma meno imprevedibili. Il contrario di quello che denunciano i portieri. Il problema semmai è che i ricercatori che hanno messo a punto Jabulani pare abbiano sottovalutato gli effetti dell'altitudine (e comunque i portieri sopra citati si erano lamentati ben prima di arrivare in Sudafrica).
(Wired)
Un cervello in corpo d'avatar È questa l'immortalità digitale.
SE UN TEMPO la conoscenza degli antenati avveniva tramite ritratti a mezzo busto o polverose foto in bianco e nero, oggi c'è chi sta lavorando per rendere questo rapporto il più diretto possibile. Dal Giappone agli Stati Uniti, il sogno dell'immortalità - quantomeno digitale - non sembra più così irrealizzabile. Si moltiplicano infatti i progetti per la costruzione di gemelli digitalizzati in grado di trasmettere gli insegnamenti di una vita ai figli dei nipoti dei propri nipoti. L'idea è quella di creare degli avatar - per ora solo computerizzati, in futuro chissà - in cui fare un back up della propria memoria, così da affidargli il compito di prolungare il sé anche dopo la morte.
Passate al setaccio dalla rivista New Scientist, in rete ci sono già diverse compagnie che offrono questo tipo di servizio, noto come "creazione del mind file". Usufruirne è semplice: basta avere un po' di tempo libero, una buona dose di pazienza e la voglia di trasformare in byte i momenti salienti della nostra vita. Il risultato, non sempre garantito, è un alter ego che, pur vivendo nel computer, impara a parlare, muoversi e comportarsi come noi. Non mancano però le aziende che si spingono oltre, prefigurando scenari in cui mind file e bio file si potranno riunire per generare qualcosa di molto simile a un clone biologico.
Il back up della memoria. La creazione (gratuita) del mind file è pratica corrente su siti come Lifenaut e CyBeRev 2. Si tratta di compagnie americane la cui "mission" è esplorare le possibilità di immagazzinamento della vita in rappresentazioni computerizzate realistiche, vale a dire avatar. Lifenaut, ad esempio, consente di caricare in un archivio digitale foto, video e documenti personali che verranno conservati per generazioni. Partendo da una foto preferibilmente inespressiva, il software la anima in modo da farla parlare, ammiccare e sbattere le ciglia. Agli utenti spetta il compito di raccontarsi attraverso test psicologici, autodescrizioni e resoconti vari, il tutto "taggando" a mo' di Facebook luoghi, date e persone.
"In questa maniera - spiegano i responsabili - si aiuta l'avatar a organizzare i suoi/nostri ricordi". E' previsto anche l'inserimento di pezzi di corrispondenza, pagine di diario e contributi di amici e parenti, per far sì che l'alter ego digitale non sia soltanto il riflesso di ciò che si sarebbe voluto essere. CyBeRev, invece, sottopone i suoi clienti a migliaia di domande ispirate all'opera del sociologo americano William Sims Bainbridge. Lo scopo è catturare speranze, valori e attitudini chiedendo alle persone di immaginare il mondo tra cent'anni. "Si tratta di un processo lungo e laborioso", mette in guardia Lori Rhodes, fondatrice di CyBeRev. "Dedicandovi un'ora al giorno tutti i giorni, ci vogliono cinque anni per completare tutte le domande. Sapendo che più si va a fondo nelle risposte, più il mind file sarà una copia fedele della nostra mente".
"Mind file" in presa diretta. Sulla scia di LifeLogger (sistema multimediale di blog e social networking creato da Orientations Network S. B. nel 2004) alcuni programmi si propongono di catturare in presa diretta il fluire di esperienze e ricordi. Un esempio è MyLifeBits 3, il progetto con cui Gordon Bell, ricercatore Microsoft, sta cercando di fermare nel tempo tutto ciò che lo riguarda, dalle telefonate di lavoro alle immagini riprese da una videocamera-ombra che lo accompagna nella sua giornata. Un team della University of Southampton (Regno Unito) si sta ingegnando per raffinare ancora di più questo principio, facendo corrispondere alle istantanee informazioni ricavate dal proprio diario, dai social network e dalle coordinate GPS in il soggetto si è mosso. In prospettiva, i ricercatori vorrebbero riuscire a integrare questi dati con misure fisiologiche, come ad esempio il ritmo del battito cardiaco, così da associare le emozioni ai fatti.
Lavorando sulle facce. Uno degli ostacoli più grandi per arrivare ad avatar "credibili" è la questione dei volti. Come fare a creare un modello in grado di rendere anche solo l'idea delle infinite sfaccettature che compongono un sorriso? A complicare la faccenda è il fenomeno noto come "uncanny valley" (letteralmente "valle perturbante"), termine utilizzato dal pioniere giapponese della robotica Masahiro Mori per descrivere le sensazioni di repulsione e inquietudine che si generano nella mente al cospetto di automi molto simili, ma non del tutto uguali, agli esseri umani.
Come ricorda New Scientist, in questo settore i risultati più alti li ha conseguiti la Image Metrics 4, compagnia californiana specializzata nella realizzazione di volti digitali per film e videogiochi. Partendo da una serie di fotografie ad alta definizione del viso di una persona (ognuna caratterizzata da sfumature emotive diverse), gli ingegneri sono riusciti a estrapolare le differenze numeriche tra un'espressione e l'altra, per poi riprodurle in formato digitale. Lo hanno fatto, ad esempio, con l'avatar dell'attrice americana Emily O'Brien (video). Nel 2008 il suo alter ego digitale è stato presentato al meeting di Los Angeles dell'ACM Siggraph, guadagnando il plauso degli appassionati di animazione e non solo.
Vita in società. Per quanto riguarda le iterazioni sociali, lo studio pilota è Project Lifelike 5, frutto della collaborazione tra University of Central Florida (Orlando) e University of Illinois (Chicago). Dal 2007 un gruppo di ricercatori sta lavorando per costruire un avatar realistico di Alexander Schwarzkopf, ex direttore della US National Science Foundation. Dai dati raccolti è emerso che ciò a cui gli esseri umani prestano più attenzione nel valutare la credibilità di un avatar non sono tanto i dettagli fisici, quanto piuttosto i movimenti idiosincratici che rendono unica ogni persona. Ecco allora che le priorità diventano i piccoli gesti, l'inarcarsi delle sopracciglia, il pendere della testa da un lato in segno di empatia, l'impercettibile flettersi dei muscoli agli angoli del naso.
Un buon avatar, com'è ovvio, deve anche saper parlare con cognizione di causa: di questo si occupano i software di chatbot, programmi in grado di simulare conversazioni basiche tra esseri umani analizzando il contesto. Lifenaut, ad esempio, utilizza Jabberwacky, un tipo di chatbot particolarmente evoluto che adatta il programma al singolo utente. Nato dallo studio di conversazioni tra milioni di persone dal 1997 ad oggi, il software ha vinto due volte il premio Loebner grazie al realismo dei suoi dialoghi.
L'avatar biologico. Il salto da un io digitale che ricorda, parla e racconta a un avatar fisico in carne e ossa appartiene ancora alla fantascienza, ma c'è chi ha già iniziato a pensarci. Generare un essere umano mettendo insieme il "bio file" e il "mind file": è questo, in ultima analisi, l'obiettivo a lungo termine di programmi come Lifenaut. Si tratta di inserire il back up del cervello dentro un clone generato con le proprie cellule. I più motivati possono avviare il processo fin da ora: previa la compilazione di un format, la compagnia manda a casa del cliente una boccetta di collutorio; questi, dopo averla usata, la rispedisce al mittente con un campione della sua saliva, le cui cellule vengono criopreservate in azoto liquido alla temperatura di -197 °C. Trattandosi di un business di dubbio successo - leggi ed etica potrebbero continuare ad esistere anche in futuro - la società si tutela chiedendo un piccolo contributo quotidiano (1 dollaro al giorno) o un pagamento una tantum di circa 9.000 dollari. Bazzecole per chi è disposto a fare follie pur di scappare alla morte.
(LaRepublica)
Passate al setaccio dalla rivista New Scientist, in rete ci sono già diverse compagnie che offrono questo tipo di servizio, noto come "creazione del mind file". Usufruirne è semplice: basta avere un po' di tempo libero, una buona dose di pazienza e la voglia di trasformare in byte i momenti salienti della nostra vita. Il risultato, non sempre garantito, è un alter ego che, pur vivendo nel computer, impara a parlare, muoversi e comportarsi come noi. Non mancano però le aziende che si spingono oltre, prefigurando scenari in cui mind file e bio file si potranno riunire per generare qualcosa di molto simile a un clone biologico.
Il back up della memoria. La creazione (gratuita) del mind file è pratica corrente su siti come Lifenaut e CyBeRev 2. Si tratta di compagnie americane la cui "mission" è esplorare le possibilità di immagazzinamento della vita in rappresentazioni computerizzate realistiche, vale a dire avatar. Lifenaut, ad esempio, consente di caricare in un archivio digitale foto, video e documenti personali che verranno conservati per generazioni. Partendo da una foto preferibilmente inespressiva, il software la anima in modo da farla parlare, ammiccare e sbattere le ciglia. Agli utenti spetta il compito di raccontarsi attraverso test psicologici, autodescrizioni e resoconti vari, il tutto "taggando" a mo' di Facebook luoghi, date e persone.
"In questa maniera - spiegano i responsabili - si aiuta l'avatar a organizzare i suoi/nostri ricordi". E' previsto anche l'inserimento di pezzi di corrispondenza, pagine di diario e contributi di amici e parenti, per far sì che l'alter ego digitale non sia soltanto il riflesso di ciò che si sarebbe voluto essere. CyBeRev, invece, sottopone i suoi clienti a migliaia di domande ispirate all'opera del sociologo americano William Sims Bainbridge. Lo scopo è catturare speranze, valori e attitudini chiedendo alle persone di immaginare il mondo tra cent'anni. "Si tratta di un processo lungo e laborioso", mette in guardia Lori Rhodes, fondatrice di CyBeRev. "Dedicandovi un'ora al giorno tutti i giorni, ci vogliono cinque anni per completare tutte le domande. Sapendo che più si va a fondo nelle risposte, più il mind file sarà una copia fedele della nostra mente".
"Mind file" in presa diretta. Sulla scia di LifeLogger (sistema multimediale di blog e social networking creato da Orientations Network S. B. nel 2004) alcuni programmi si propongono di catturare in presa diretta il fluire di esperienze e ricordi. Un esempio è MyLifeBits 3, il progetto con cui Gordon Bell, ricercatore Microsoft, sta cercando di fermare nel tempo tutto ciò che lo riguarda, dalle telefonate di lavoro alle immagini riprese da una videocamera-ombra che lo accompagna nella sua giornata. Un team della University of Southampton (Regno Unito) si sta ingegnando per raffinare ancora di più questo principio, facendo corrispondere alle istantanee informazioni ricavate dal proprio diario, dai social network e dalle coordinate GPS in il soggetto si è mosso. In prospettiva, i ricercatori vorrebbero riuscire a integrare questi dati con misure fisiologiche, come ad esempio il ritmo del battito cardiaco, così da associare le emozioni ai fatti.
Lavorando sulle facce. Uno degli ostacoli più grandi per arrivare ad avatar "credibili" è la questione dei volti. Come fare a creare un modello in grado di rendere anche solo l'idea delle infinite sfaccettature che compongono un sorriso? A complicare la faccenda è il fenomeno noto come "uncanny valley" (letteralmente "valle perturbante"), termine utilizzato dal pioniere giapponese della robotica Masahiro Mori per descrivere le sensazioni di repulsione e inquietudine che si generano nella mente al cospetto di automi molto simili, ma non del tutto uguali, agli esseri umani.
Come ricorda New Scientist, in questo settore i risultati più alti li ha conseguiti la Image Metrics 4, compagnia californiana specializzata nella realizzazione di volti digitali per film e videogiochi. Partendo da una serie di fotografie ad alta definizione del viso di una persona (ognuna caratterizzata da sfumature emotive diverse), gli ingegneri sono riusciti a estrapolare le differenze numeriche tra un'espressione e l'altra, per poi riprodurle in formato digitale. Lo hanno fatto, ad esempio, con l'avatar dell'attrice americana Emily O'Brien (video). Nel 2008 il suo alter ego digitale è stato presentato al meeting di Los Angeles dell'ACM Siggraph, guadagnando il plauso degli appassionati di animazione e non solo.
Vita in società. Per quanto riguarda le iterazioni sociali, lo studio pilota è Project Lifelike 5, frutto della collaborazione tra University of Central Florida (Orlando) e University of Illinois (Chicago). Dal 2007 un gruppo di ricercatori sta lavorando per costruire un avatar realistico di Alexander Schwarzkopf, ex direttore della US National Science Foundation. Dai dati raccolti è emerso che ciò a cui gli esseri umani prestano più attenzione nel valutare la credibilità di un avatar non sono tanto i dettagli fisici, quanto piuttosto i movimenti idiosincratici che rendono unica ogni persona. Ecco allora che le priorità diventano i piccoli gesti, l'inarcarsi delle sopracciglia, il pendere della testa da un lato in segno di empatia, l'impercettibile flettersi dei muscoli agli angoli del naso.
Un buon avatar, com'è ovvio, deve anche saper parlare con cognizione di causa: di questo si occupano i software di chatbot, programmi in grado di simulare conversazioni basiche tra esseri umani analizzando il contesto. Lifenaut, ad esempio, utilizza Jabberwacky, un tipo di chatbot particolarmente evoluto che adatta il programma al singolo utente. Nato dallo studio di conversazioni tra milioni di persone dal 1997 ad oggi, il software ha vinto due volte il premio Loebner grazie al realismo dei suoi dialoghi.
L'avatar biologico. Il salto da un io digitale che ricorda, parla e racconta a un avatar fisico in carne e ossa appartiene ancora alla fantascienza, ma c'è chi ha già iniziato a pensarci. Generare un essere umano mettendo insieme il "bio file" e il "mind file": è questo, in ultima analisi, l'obiettivo a lungo termine di programmi come Lifenaut. Si tratta di inserire il back up del cervello dentro un clone generato con le proprie cellule. I più motivati possono avviare il processo fin da ora: previa la compilazione di un format, la compagnia manda a casa del cliente una boccetta di collutorio; questi, dopo averla usata, la rispedisce al mittente con un campione della sua saliva, le cui cellule vengono criopreservate in azoto liquido alla temperatura di -197 °C. Trattandosi di un business di dubbio successo - leggi ed etica potrebbero continuare ad esistere anche in futuro - la società si tutela chiedendo un piccolo contributo quotidiano (1 dollaro al giorno) o un pagamento una tantum di circa 9.000 dollari. Bazzecole per chi è disposto a fare follie pur di scappare alla morte.
(LaRepublica)
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